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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

Al Madre una mostra per ripensare la natura oltre l’antropocene

Brunella Velardi
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La pluralità di voci che si leva dalle opere esposte alla mostra Rethinking Nature al Museo Madre costituisce uno spaccato complesso, ma ideologicamente schierato, della nostra contemporaneità. In una fase storica in cui, volenti o nolenti, stiamo acquisendo coscienza del nostro impatto sul pianeta, in un passaggio temporale segnato dalla crescente attenzione posta sulla crisi climatica dal movimento Fridays for Future, da scienziati di tutto il mondo e da summit internazionali come la Cop26, l’esposizione chiama gli artisti (e il pubblico) a riflettere sulla più stringente delle emergenze globali. Lasciandosi trasportare dalla prospettiva articolata offerta dai lavori, molti dei quali realizzati per questa occasione, si rimane avviluppati in un insieme inestricabile di episodi della storia passata e cronache attuali, restituiti attraverso la lente di una ricerca artistica che assume qui una forma drammaticamente aderente alla dimensione documentaria. Proprio questo aspetto impronta molte delle opere, in cui spesso il confine tra manipolazione artistica e ricerca scientifica è, se non labile, addirittura abolito definitivamente in favore dell’una o dell’altra. Con questo testimoniando la piena libertà dell’arte non solo dalle sue dinamiche intrinseche, ma anche a fronte di una tassonomia disciplinare – essa stessa derivazione della medesima impronta illuministica che ha alimentato l’ideologia del progresso tecnologico nella direzione che conosciamo oggi – che inizia sensibilmente a scricchiolare.
Non è un caso se la presenza forse più cospicua tra i linguaggi presenti è quella del video, con il risultato di un’esperienza estetica che si confonde in buona parte con l’approfondimento documentario anche su esperienze che, sebbene non ci meraviglino più pur quando a noi ignote, danno ancora la misura di quanto devastante sia la nostra azione sul mondo. Se infatti l’intero itinerario espositivo è percorso da una pesante denuncia degli effetti dell’antropocene, le stesse premesse del progetto si fondano sul pensiero ecologico, supportato da numerosi teorici contemporanei. Con solide fondamenta storiche e filosofiche, le opere in mostra, nel loro complesso, sono in grado di mettere in relazione i colonialismi (del Quattrocento come del Novecento) con la reiterata sopraffazione della natura, ricollocando entrambi all’interno di una logica di separazione tra il sé e l’altro, laddove l’altro (gli altri viventi, il territorio, le popolazioni sottomesse) è concepito come terreno di conquista, in un imperituro esercizio della legge del più forte.
Lo svincolarsi dell’arte dalle sue stesse leggi diventa allora anche la rivendicazione di un’autonomia da vincoli politici e concettuali allo stesso tempo, con cui lo scardinamento delle dinamiche di potere passa attraverso una radicale messa in discussione dei nostri stessi schemi di conoscenza e interpretazione del mondo e attraverso l’affermazione, si diceva, di una conquistata libertà dell’arte. Una libertà reclamata con forza già nei primi anni Settanta, quando con Agricola Cornelia (1973-1981) Gianfranco Baruchello dava alla sua pratica artistica la forma di una militanza volta al sovvertimento del controllo sull’arte che si dispiegava nell’attività agricola e pastorale. Queste le premesse del suo progetto: «Si è andato formando in Italia in questi ultimi anni un gruppo di potere che controlla di fatto le attività creative e artistiche dei cittadini. […] I suoi presupposti operativi possono riassumersi come segue: I°) tutto è già stato detto, visto, fatto; 2°) il diverso è frutto di situazioni patologiche; 3°) l’opera d’arte ha ciononostante libero corso: a) se è funzionale agli interessi e al potere culturale gestito dai controllori; b) se viene ad assumere un valore economico sufficiente ad alimentare la speculazione del mercato culturale. […] Per accertare l’eventuale esistenza di spazi da sottrarre al controllo culturale diretto e indiretto dello stato ci si è posti l’obiettivo di agire al di fuori dei condizionamenti di cui ai punti 1°), 2°), e 3°) sopraricordati e si è scelta un’attività creativa che […] rispondesse ai seguenti requisiti: A) non essere stata già detta, vista o fatta come “artistica”; B) non essere frutto di situazioni patologiche; C) avere libero corso (mediante la redazione del presente documento, l’uso del circuito postale e di altri eventuali mezzi di informazione casuali) pur non essendo funzionale al potere e pur non assumendo un valore economico sufficiente ad alimentare la speculazione del mercato culturale […].» (1) Appare quanto mai eloquente che le azioni scelte da Baruchello per esercitare la sua battaglia contro il potere costituito siano quelle che possono più direttamente ricongiungere l’artista con uno stadio primario della creatività (l’invenzione di soluzioni per assicurarsi viveri con minori rischi) e che questo parta proprio da un contatto diretto con la terra e con i viventi a cui l’uomo è indissolubilmente legato: gli ortaggi e le greggi.
Si tratta in effetti di una congiuntura d’anni particolarmente significativa: solo un anno prima dell’inizio del progetto di Baruchello, Edgar Morin aveva affermato l’urgenza di un radicale ripensamento del rapporto dell’uomo con la natura, da intendersi nei termini di un ecosistema in cui il primo è strettamente dipendente dalla seconda, in un regime di necessità che va via via incrementandosi quanto più, con gli sviluppi della tecnologia, ci riteniamo illusoriamente autonomi da essa (2). Ad ogni modo, iniziare dall’impresa agricola di Baruchello, che si trova in realtà quasi alla fine del percorso, ci è utile non solo a mettere a fuoco un principio cronologico dell’emergere di una coscienza ecologica che da più parti si manifestava proprio negli anni Settanta. Baruchello fa infatti riferimento, nel suo comunicato-manifesto, anche al ruolo della classe dirigente, in questa diatriba tra libertà dell’arte ed esercizio del potere: «Lo stare comunque dalla parte del potere, che è del resto una tradizionale vocazione dell’intellettuale medio italiano, viene in questo caso apertamente ricompensato […] con l’assegnazione di grossi strumenti di potere, anche economico, nelle università, nei giornali, nella radiotelevisione, negli enti culturali» (3). Questo chiamare in causa gli intellettuali, come parte attiva nell’alimentare di dinamiche di sopraffazione, non particolarmente esplicita nel percorso della mostra, emerge tuttavia anche in un lavoro assai distante per cronologia e linguaggio. Il video Stealing Earth (2018) del nepalese Karan Shrestha denuncia la retorica della conservazione della natura attraverso l’istituzione di parchi nazionali, con lo scopo di alimentare l’industria del turismo, in territori abitati da comunità indigene la cui sopravvivenza sociale è intimamente connessa con gli ecosistemi; così, in una sorta di canto catartico, un gruppo di indigeni allontanati dalla foresta divenuta Parco Nazionale di Chitwan, danza al ritmo delle parole «intellettuali e politici vennero insieme / e formularono leggi / la sede del parco nazionale fu stabilita a Kasara / i nostri antenati non furono informati». È in effetti una sorta di contro- o per meglio dire oltre-cultura – nell’erronea accezione che siamo soliti dare alla cultura come carattere dell’esistenza opposto alla natura (4) –, un nuovo modello intellettuale, ad essere proposto attraverso le opere.
La cospicua presenza su più livelli di culture indigene all’interno della mostra è forse uno dei tratti di maggiore forza del progetto espositivo. Non solo perché restituisce una panoramica sul problema della crisi ambientale da una molteplicità di prospettive che corrisponde alla sensibilità di comunità assai lontane tra loro, poste definitivamente sullo stesso piano dello sguardo occidentale, ma anche perché costituisce un terreno comune sul quale tutte convergono da ogni angolo del mondo, rintracciando in particolare nelle culture extraeuropee una via d’uscita dal dramma (5). Il ripensamento della natura annunciato nel titolo avviene così in buona parte attraverso gli occhi e le pratiche di popolazioni indigene che, dall'Amazzonia all'Australia, dal Sudafrica all'Indocina, restituiscono possibilità di interazione con la natura ancora libere dalle dinamiche del capitalismo, mostrando il funzionamento di piccole economie fondate su uno scambio tra uomo e natura. Nel video Cacao d'Amazonie (2021), realizzato da Amakaba – poliedrico centro di pratiche artistiche, agricole e spirituali fondato da Tabita Rezaire nella foresta amazzonica della Guyana francese – per Rethinking Nature, il protagonista racconta la trasformazione del terreno in cui lavora attraverso la potatura degli alberi di cacao, che consente alle piante di crescere più forti e rigogliose. Allo stesso modo, in Singing Bee Garden (2021), della stessa autrice, un apicoltore guyanese afferma quanto sia necessario abbandonare ogni avidità per lavorare con le api: loro danno qualcosa a me, io do qualcosa a loro, ripete: «Quando lavori con le api devi donare una parte di te. Io prendo una parte di loro, quindi è giusto che abbiano accesso a una parte del mio corpo. Loro ti pungono e tu le lasci fare. Io prendo una parte di loro e do loro una parte di me. Ecco perché prima ho detto che mi hanno insegnato a non essere avido, a condividere».
I due filmati, attraverso i monologhi che presentano, si configurano come squarci verso realtà libere dalle logiche di mercato occidentali, aliene rispetto alle macchine mastodontiche dell’agricoltura intensiva e destinata al commercio globale. D’altronde, gli allegri assemblaggi di disegno e collage della serie Paradossi dell’abbondanza (2020-2021) di Marzia Migliora, posti ad apertura della mostra, catturano con le loro colorazioni vivaci e i floridi ornamenti vegetali uno sguardo che si fa via via più amaro nella messa a fuoco del grottesco accostamento, tra frasche e frutti, di immagini di signore truccate, pettinate e sorridenti che sorseggiano caffè e addentano tavolette di cioccolata, tratte dalla grafica pubblicitaria anni Cinquanta, a fotografie – d’epoca e attuali – di donne intente al raccolto di terre sfruttate per la soddisfazione dei consumi della borghesia capitalista. Uno sfruttamento che si fa sarcastica e raggelante denuncia nell’opera di Elena Mazzi, The Upcoming Polar Silk Road (2021), un po’ documentario, un po’ filmato pubblicitario, in cui una voce suadente invita a una nuova imperdibile esperienza turistica in terre inesplorate del circolo polare artico, mentre vengono descritte entusiasticamente le conseguenze della crisi climatica e dello scioglimento dei ghiacciai come opportunità di sfruttamenti inediti di un suolo disabitato e di nuove golose occasioni di incremento dei commerci tra Europa e Cina. Il video si conclude, suggestivamente, con un sospiro che sembra emergere dal paesaggio chiedendo: «Who are you? What are you looking for in these places where your species is unknown? ».
La risposta emerge più volte lungo l’esposizione: il colonialismo evocato o espressamente riportato in opere come i disegni di Migliora, Weather Reports (2020-2021) del collettivo indigeno australiano Karrabing Film Collective, TeleGuaiana (2019) di Niccolò Moronato (6), Bestiario de Indias I (2020) dell’argentina Adriana Bustos, AmaHubo della sudafricana Buhlebezwe Siwani, assume oggi nuovi nomi e nuove forme, eppure impronta, oggi come ieri, il nostro relazionarci con la natura e con l’altro, fino a giungere a manifestazioni estreme. Il film di Sam Keogh The Island (2021) mette in relazione, attraverso un’esplorazione all’interno del paesaggio post apocalittico del videogioco Fortnite, la violenza tra esseri umani che con la saga di Hunger Games (2012-2015) era arrivata con tutta la sua ferocia nell’immaginario collettivo e pop – e di cui non a caso il videogame ha ripreso in una fase successiva del suo sviluppo scenari e personaggi – con quella perpetrata ai danni dell’ecosistema, messo ulteriormente a repentaglio dalla costruzione in luoghi vergini (come nel circolo polare artico o sui fondali oceanici) di centri di elaborazione dati di cui il successo del gioco richiede un crescente ampliamento.
La dimensione della denuncia sembra però assumere sempre più i tratti di una realistica alternativa allo status quo. Mentre la canzone Beds are burning (1987) inizia con le parole «Le persone non capiscono fino in fondo la vera portata, noi parliamo e loro non ascoltano, non ascoltano» (7), che ci riportano direttamente il pensiero al recentissimo film Don’t Look Up (2021), aleggia nelle sale un clima di silenziosa ma tenace resistenza. Black El Dorado (We are the earthquake) (2021) di Iki Yos Piña Narváez e Jota Mombaça mette efficacemente in relazione un’endoscopia orale con immagini di estrazione e lavorazione dell’oro in Brasile e Venezuela; i due filmati sono installati, uno accanto all’altro, su un pavimento rosso su cui campeggia la scritta, composta da frammenti di pirite e carbone, “Il terremoto è intatto”, in riferimento alla resilienza indigena e del territorio nei confronti delle depredazioni coloniali. Lo sfruttamento del sottosuolo, che conosciamo da vicino, ritorna nei carotaggi provenienti dalle miniere di carbone del Sulcis iglesiente che Giorgio Andreotta Calò compone nell’installazione Produttivo (2018-2019), parte di un progetto che ha previsto la donazione a diversi musei italiani di campioni provenienti dall’archivio della Carbosulcis S.p.A., destinati allo smaltimento dopo la chiusura dell’attività nel 2017. Disposti in orizzontale sul pavimento, i carotaggi richiamano alla memoria la serie ‘Monument’ for V. Tatlin (1964-1969) di Dan Flavin, ridotta a una condizione di dismissione post-tecnologica, di cui conservano tuttavia un’aura sacrale conferita allo stesso tempo dall’essere testimoni di antiche stratificazioni geologiche e superstiti alla loro stessa distruzione in una sorta di rivivificazione museale. Una dimensione sacrale affine a quella messa in scena da Yasmin Smith in Terra dei fuochi (2021), realizzata su un territorio tristemente celebre, dove tuttavia con operazioni di fitorisanamento le ricerche hanno portato alla luce la capacità del suolo vulcanico di neutralizzare gli elementi tossici provenienti dai rifiuti dati alle fiamme. L’installazione appare infatti un monumento agli alberi impiantati, da cui l’artista australiana ha ricavato i calchi per riprodurli in pregiata porcellana di Limoges.
Monumentali anch’essi, i cinque schermi di Karikpo Pipeline (2015-2021) della nigeriana Zina Saro-Wiwa restituiscono la visione caleidoscopica di un paesaggio in brutale trasformazione. Le lussureggianti immagini di una vegetazione selvaggia e incontaminata lasciano lentamente il posto a distese di fango attraversate da imponenti condotti per il trasporto del greggio. I campi incolti solcati da strade rendono paradossalmente vicino il paesaggio nigeriano alle periferie delle nostre città, ugualmente martoriate dalla violenza e dall'incuria dell'uomo mentre, sulla stridente l'apparizione di impianti, serbatoi, condutture, figure mascherate compaiono come visioni oniriche a testimoniare la resistenza di una dimensione di empatia con i ritmi della natura.
È proprio l’empatia ad emergere ancora nei lavori di Zheng Bo e Maria Thereza Alves. Il primo installa un giardino di felci – Fern as Method (2021) – in una sala del museo, tra cui compare un video che mostra scene di intimità sessuale tra uomo e pianta – Pteridophilia 2 (2018) –, la cui “scabrosità” è definitivamente neutralizzata dalla presenza di un filmato che riprende la pseudocopulazione tra insetti e vegetali e il dipinto murale proveniente dal MANN e raffigurante Pan, dio ibrido tra uomo e animale, e un ermafrodito. Il giardino Decolonizing Botany / Jevy Jejapo-pyra Temitī-tyre (2020) di Alves è invece un’installazione realizzata in collaborazione con la comunità brasiliana Guaraní, in cui gli acquerelli raffiguranti specie vegetali sono affiancati dal canto che la comunità ha eseguito per ciascuna di esse; i loro nomi, riportati in lingua guaraní e in latino, mostrano la distanza tra la cultura occidentale, che con il colonialismo ha conosciuto nuove specie viventi classificandole secondo le proprie convenzioni, e quella indigena, permeata da un’intima ed empatica relazione con la natura.
Una dimensione immaginifica percorre infine Pillar (2021), la grande installazione realizzata dai filippini Alfredo e Isabel Aquilizan in collaborazione con i migranti della cooperativa sociale Dedalus e gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, che attraversa le rampe dei tre piani del museo. Un agglomerato di ritagli di cartone riciclato forma una cascata di piccole casette che sembrano colare da un’imbarcazione rovesciata sul soffitto, dando forma a una visione fantastica che mette insieme materiali trovati e processi partecipativi in un anelito di speranza per un futuro di armonica coesistenza.

Gennaio 2022
1) G. Baruchello, dal manifesto del progetto Agricola Cornelia (1973-1981).
2) Scrive Morin: «un individuo autonomo del XX secolo costruisce la sua autonomia partendo dal consumo di una grande quantità di prodotti, di una enorme quantità di energia (tutti estratti dall’ecosistema) e da un lunghissimo apprendimento scolastico (che altro non è se non la conoscenza del mondo esterno). Così, più diventiamo indipendenti, più diventiamo dipendenti dal mondo esterno: è il problema della società moderna che crede, invece, di emanciparsi dal mondo esterno dominandolo» E. Morin, L’anno I dell’era ecologica (1972), ed. it.: id., L’anno I dell’era ecologica, Roma, Armando Editore, 2007, pp. 21-22.
3) G. Baruchello, op. cit.
4) Il superamento di questa dicotomia, proposto da diversi teorici anche occidentali tra cui Gilles Deleuze e ripreso dallo stesso Morin con l’individuazione della “componente naturale” insita nella formazione di ogni cultura, è d’altro canto condiviso da etologi e botanici, da Konrad Lorenz a Stefano Mancuso, che insistono sull’elemento culturale intrinseco nell’attivazione di forme di intelligenza negli altri viventi.
5) Nel definire la coscienza ecologica, Morin afferma che questa è: «la coscienza della dipendenza della nostra indipendenza, vale a dire il rapporto fondamentale con l’ecosistema, che ci porta a rifiutare la nostra visione del mondo oggetto e dell’uomo insulare. Del resto, è il solo modo di comprendere le verità delle filosofie non occidentali – asiatiche e africane –, di riconciliarci con esse e di giungere a una visione universale del mondo», ivi, p. 23.
6) L’opera è visibile anche online sul sito www.teleguaiana.com (consultato il 7 gennaio 2022).
7) Scritta dai membri del Karrabs Film Collective nel 1987, la canzone è stata reinterpretata da Julia Stone nel 2020 per sostenere i soccorsi a seguito degli incendi che quell’anno avevano devastato il paese. In mostra è presente con il videoclip che la accompagnava.