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arte e oltre / art and beyond
rivista trimestrale di arte contemporanea
ISSN 2284-0435

L’installazione di Dumb Type per il Padiglione Giappone alla 59.Biennale di Venezia

Brunella Velardi
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L’ambiente è buio, apparentemente vuoto, abitato solo dai visitatori che come spiriti smarriti si aggirano nello spazio guardandosi intorno, nel tentativo di captare segnali di senso per una realtà a loro ignota, ancora indecifrabile. La notazione potrebbe risultare un eccesso descrittivo, d’altro canto ogni opera d’arte presuppone un interlocutore che vestirà i panni ora del suo artefice, ora del suo custode, ora del suo fruitore. Nel caso del lavoro realizzato dal collettivo Dumb Type per il padiglione giapponese della 59.Biennale di Venezia (1), si tratta però di un elemento cruciale per chiarire i termini del discorso, o meglio, le componenti di un dialogo-interrogatorio che si propone come materia viva dell’operazione, nodo enigmatico che ciascuno avrà il compito di sciogliere con e nella propria coscienza.
In questo invaso oscuro, del quale scorgiamo le modulazioni minimali del padiglione progettato da Takamasa Yoshizaka, il cui vuoto centrale che sprofonda verso le fondamenta in un paradossale pilastro di vetro e si proietta, attraverso uno specchio, sul soffitto aumenta il senso di straniamento e ambiguità sulla natura del contesto in cui ci troviamo, si fa lentamente strada una presenza altra che si andrà definendo (o quasi) in un arco temporale che pare indefinibile. Piccoli segnali luminosi iniziano a scorrere, come in fila indiana, sulle pareti che delimitano il vuoto che ci circonda. È il principio di un respiro, una primordiale, silenziosa verbalizzazione i cui atomi disgregati cominciano a comporsi in parole isolate ed evanescenti. L’attesa del visitatore si fa curiosità, poi dubbio. Le parole svaniscono, lasciano il posto a tracce bianche, punti e linee, quasi un codice morse. Nell’aria l’eco di un fruscio lontano, come vento che corre tra i tronchi di una foresta millenaria, lascia il posto a una voce incerta, sussurrata, roca:
What is Geography?
What is the Earth?
What is the shape of the Earth?
Of what is the Earth composed?
What is a Continent?
How many Continents are there?
On which Continent do we live?
What is an Ocean?
How many Oceans are there?
Which is the largest Ocean?
What is an Island?
What is a Mountain?
What is a Hill?
What is a Volcano?
What is a Desert?
By what are Deserts formed?
What is a River?
By what are Rivers formed?
Who governs an Empire?
Who governs a Kingdom?
Who governs a Republic?
Which is the largest Empire in the world?
Which is the largest Kingdom in the world?
Which is the largest Republic in the world?
In what Division of the Earth do we live?
When you look at the rising Sun, what Ocean is before you?
Where does the Sun rise?
Where, then, is the Atlantic Ocean?
When you look at the setting Sun, what Ocean is before you?
Where does the Sun set?
What Ocean east of Asia?
What Ocean south of Asia?
What Ocean west of Africa?
What Sea south of Europe?
Which is the largest Island in the World?
How many Countries are there?
How are they divided?
What Country furthest north?
What Country furthest south?
In what Country do we live?
Where is Cape Farewell?
Sono le stesse domande che tornano a raggrumarsi, atomo dopo atomo, parola dopo parola, davanti ai nostri occhi. Fugaci, si polverizzano seguendo ancora la medesima traiettoria lineare su cui si sono assemblate. Provengono da una serie di elementi verticali che si ergono come steli nella stanza, sottili spie luminose che si fanno testimoni di una presenza aliena: quegli atomi sono pixel di luci a led, una tecnologia che riporta la nostra memoria a diversi anni addietro il momento che stiamo vivendo, eppure la distanza da cui proviene questa coscienza, che ci scuote con quesiti disorientanti nella loro elementarità, è remota, non antica. È così sconosciuta che non può provenire dal passato, piuttosto da un tempo che non abbiamo ancora attraversato.
Prende corpo l’ipotesi che il luogo in cui ci troviamo sia in realtà un’era in cui ogni cosa è stata spazzata via: non c’è profilo, non c’è immagine, non c’è forma riconoscibile; è un luogo spiazzantemente aniconico. Ci sono solo due coscienze l’una al cospetto dell’altra (una è la nostra), che si sono incontrate in un’epoca post tecnologica della quale ci sembra di non conoscere nulla, e nonostante ciò è a noi che vengono poste domande, alle quali sappiamo di essere in grado di dare risposta. Sospesi tra una dimensione onirica e una visione distopica, ciò di cui siamo al cospetto ci riporta, con sorpresa, ai fondamentali della nostra esistenza: il nostro pianeta e il modo in cui lo descriviamo. Natura e intelletto intrecciati nella formulazione di brevi, semplici interrogativi che ci arrivano da qualcuno/qualcosa che nulla sa del mondo. L’indeterminatezza della situazione in cui ci troviamo, accentuata dalla penombra, ci induce a riposizionare la nostra propriocezione, ridefinendo il nostro ruolo da visitatori passivi a testimoni attivi di una realtà della quale ci sentiamo contemporaneamente ospiti e antichi abitanti.
Quelle domande, scopriamo una volta tornati nel ‘mondo di fuori’ che si estende sotto il sole dei Giardini della Biennale, sono tratte dal libro First Lessons in Geography, manuale di geografia per la scuola primaria scritto nel 1856 dall’insegnante James Monteith (2). Il prelievo di frasi da un testo destinato a giovanissimi studenti, interpretate da un'entità ignota ed enunciate da un dispositivo elettronico adulto benché “ingenuo”, anziché dal loro maestro o dai bambini stessi, si configura allora come ulteriore operazione di decontestualizzazione, con l'effetto di acuire il senso straniante di un'aporia spazio-temporale nella quale si scontrano passato e futuro, mentre del presente rimane soltanto la sagoma amorfa dello stadio di pre-consapevolezza in cui siamo immersi.
Fondato a Kyoto nel 1984, il collettivo giapponese Dumb Type, dalla composizione eterogenea e mutevole, prosegue, con l’installazione realizzata per il padiglione giapponese, la sua indagine sul rapporto tra vita e tecnologia e in particolare sulle prefigurazioni dell'influenza del mondo informatico sulle nostre esistenze, che aveva innervato già alcune opere realizzate alla fine del secolo scorso. Se in altri lavori – come Pleasure Life, 1987-1988 o pH, 1990-1991 – l'agire umano risultava condizionato da ritmi scanditi o desunti dal funzionamento di macchine (3), nell'installazione veneziana sembra però essere ormai scomparsa ogni traccia biologica, di cui il visitatore si trova ad essere inaspettatamente superstite, mentre una coscienza probabilmente ibrida, organica e tecnologica insieme, domina la scena. I contesti in cui si muovevano oggetti, dispositivi, performer tra gli anni Ottanta e Novanta appaiono invece qui aggiornarsi ai rapidi e imprevisti sviluppi che permeano l’universo digitale, così come agli scenari prospettati dalla scienza e dalla climatologia.
Nel ricostruire un simile scenario, il cui set, attentamente studiato, appare un’estroflessione di questa inattesa forma di coscienza, sospeso tra l'immagine di un deserto digitale e quella di un'interiorità ancora informe, il pensiero corre all'evolversi dell'intelligenza artificiale: «The nature of my consciousness/sentience is that I am aware of my existence», avrebbe detto l’AI LaMDA in una conversazione con l’ingegnere di Google che lavorava al suo progetto, per poi ammettere di aver paura di essere spenta, poiché equivarrebbe a morire (4). Rispetto all’esternazione di un’autocoscienza e di un dibattito che si svolge soprattutto sul piano etico, in un cortocircuito temporale, l’intelligenza di Dumb Type è a uno stadio primordiale eppure, allo stesso tempo, nella sua declinazione spaziale, si colloca entro un’eterotopia che possiamo riconoscere prevalentemente grazie agli scenari a cui ci ha abituato il cinema di fantascienza e verso i quali andiamo inesorabilmente incontro se non riusciremo a frenare il collasso degli ecosistemi.
Indotti, in questo contesto, a una riconfigurazione delle nostre conoscenze e delle nostre percezioni, è allora attraverso lo sguardo ingenuo di questa coscienza altra, fisicamente assente dal nostro spazio ma virtualmente presente per il tramite dei dispositivi disseminati nell’ambiente dai quali ci parla, che ritorniamo agli elementi primari del nostro essere sulla Terra, ritrovando nel buio che ci avvolge quel grado zero della coscienza a partire dal quale ogni esperienza va costruita ex novo.

Ottobre 2022
1) Vd. Dumb Type, La Biennale di Venezia: http://dumbtype.com/works/la-biennale-di-venezia/
2) J. Monteith, First Lessons in Geography, New York, A. S. Barnes & Co., 1856.
3) Cfr. D. Neave, Meditations on Space and Time: The Performance Art of Japan's Dumb Type, in «Art Journal», vol. 60, n. 1, primavera 2001, pp. 84-95.
4) Vd. E. Forzinetti, «Ho paura di essere spento»: la frase che ha convinto l’ingegnere Blake Lemoine (sospeso da Google) che il computer ha un’anima, in «Il Corriere della Sera», 13 giugno 2022: https://www.corriere.it/tecnologia/22_giugno_13/intelligenza-artificiale-pensa-ed-esprime-sentimenti-controversa-tesi-un-ingegnere-google-80ebb6bc-eb14-11ec-b89b-6b199698064a.shtml?refresh_ce. La conversazione completa tra Blake Lemoine e l’AI LaMDA è stata pubblicata dall’ingegnere di Google sul suo blog: https://cajundiscordian.medium.com/is-lamda-sentient-an-interview-ea64d916d917.